Verso la metà del XIII secolo, l’Europa occidentale si dirigeva verso un modo nuovo di considerare l’abbigliamento, dato dai cambiamenti culturali, politici e artistici del tempo.
Gli abiti divennero più eleganti e più pratici merito di nuovi e/o riadattati materiali commerciati grazie ai rapporti positivi all’interno dell’Europa.
La lana era la fibra più commerciata e importante per l’abbigliamento, il cambellotto era una stoffa di lana fine e costosa prodotta e commerciata dalla Francia soprattutto in Inghilterra e nel Nord Italia per le classi più abbienti. Un tessuto “elasticizzato” veniva lavorato in Italia, si trattava di una stoffa tessuta con peli di cammello esportata da Cipro. La seta e la saia provenivano dall’Oriente anche se dopo la metà del secolo venne introdotta l’arte di tessere la seta anche in Occidente seppur il suo prezzo fosse tutt’altro che buono, ma già a fine secolo, il prezzo venne ridotto per dare la possibilità di un maggior mercato. Il lino, invece, era lavorato in tutta Europa e poteva essere tessuto in diverse varianti: dal pesante canovaccio alla finissima batista.
Nel campo dei materiali usati per la confezione delle vesti, l’uso della pelliccia rappresentava uno spacco tra ceti alti e bassi, in quanto era un lusso. Al contrario le pelli vennero usate largamente da tutti, tra cui: pecora, tasso, topo muschiato, gatto e cinghiale.
L’uomo indossava pelli e pellicce per proteggersi dal freddo, diffusi anche mantelli in panno di lana o velluto nei ranghi più alti, quest’ultimi erano generalmente ragliati in una ricca stoffa circolare, bordati di pelliccia e fermati da un’importante spilla o da un semplice nodo.
Si diffuse, dopo la metà del 1200, un nuovo indumento da indossare sopra la veste, al posto del mantello: si trattava del “garde-corps” cioè “guarnacca”.
Era un indumento esterno, elaborato, confezionato con un pesante tessuto di lana e poteva essere bordato di pelliccia e completato da un cappuccio.
Si trattava di una sorta di soprabito lungo sino polpaccio, in genere fino alla caviglia e cadeva liberamente dalle spalle; solitamente non aveva nessuna cintura. Le ampie maniche svasate potevano essere infilate normalmente oppure le braccia uscivano da un’apertura all’altezza dell’ascella lasciando cadere liberamente dietro il tessuto.
Al di sotto, l’abbigliamento era composto da una “chemise” di lino a tinta unita a contatto con la pelle, da una tunica (sopravveste) sbracciata, lunga fino al polpaccio conosciuta in Europa con il nome di “cyclas” comunemente chiamata in Italia “ciclade” o semplicemente guarnacca senza maniche, la quale ricordava il “surcot” militare delle Crociate, indossata con una cintura in vita e un taglio che andava dal cavallo all’orlo. Spesso era confezionata con tessuti fastosi come lo “sciamito” cioè una pesante stoffa di seta.
Le calze assunsero maggior valore grazie alla tunica corta, confezionate spesso con una stoffa elastica di lana per tenerle strette alla gambe ed erano foderate, spesso solo nella parte alta, per evitare lo sfregamento della lana sulla pelle nell’interno coscia. Le calze avevano gambe separate fissate alla vita con stringhe e laccia. Spesso erano sprovviste di piede e venivano chiamate “calze solate” cioè dotate di una suola in cuoio, oppure erano trattenute sotto la pianta del piede da un passante. Dopo la metà del XIII secolo, per qualche decennio, si diffusero in Europa Occidentale calze decorate con motivi floreali e geometrici.
Per proteggere il piede si diffusero semplici scarpe in cuoio o morbidi stivali in pelle che ricordavano, attraverso una rivisitazione raffinata, lo stivale del contadino; in certi casi le scarpe erano sostituiti da una striscia di pelle attaccata direttamente alla calza, per gli uomini più ricchi, le scarpe potevano essere di seta pesante ornate di ricami e pietre preziose, sinonimo di ostentazione.
Svariate tipologie di scarpe, stivali e calze si posso facilmente individuare nelle opere italiane di Giotto, vissuto dal 1267 al 1337 a Firenze.

Tunica a maniche larga lunga al ginocchio, calze in lana, cappello di paglia o cappuccio. Giotto, cappella degli Scrovegni, Padova
Con la metà del XIII secolo si diffondeva largamente l’uso del berretto non solo come protezione dal freddo e dalla pioggia, ma come capo d’abbigliamento. Cappelli di feltro, di paglia, di felpa o di stoffa divennero oggetti di moda per i quali aumentò la vanità delle classi nobili; si iniziò a parlare di una vera e propria “cultura del cappello”.
Il berretto, “biretum”, ricorda le forme romane e greche ad esempio il comune berretto frigio di Attis di Frigia (Grecia VII a.C.).
Si usavano berretti di lino o di lana, con l’orlo rovesciato tra cui nacque il “tocco”, e impellicciato per proteggere il capo in caso di pioggia e freddo o berretti di pelliccia, di notevoli dimensioni.
Il “De arte venandi cum avibus” (Sull’arte di cacciare con gli uccelli), un manoscritto dell’imperatore Federico II di Svevia sull’attività venatoria, commissionato a Napoli dal figlio di Federico, Manfredi re di Sicilia, intorno al 1260, conservato alla Biblioteca Vaticana (codice Pal. Lat. 1071), presenta svariate immagini di cappelli indossati all’epoca, tra cui il “tocco”. Conosciuto come un berretto di colore rosso scarlatto usato dai fiorentini che lo portavano con la tesa rovesciata all’insù quasi a circondare il capo come una corona.
Il copricapo era solitamente indossato sopra alla già diffusa “infulae”.
Materiali per la realizzazione del tocco erano lana, lino e cotone e veniva utilizzato durante il corso di tutte le stagioni.
Si divulgarono presto vari cappucci tanto da essere citati in testi storici in latino volgare “caputei ad evitandum frigus” tradotto come “cappucci per ripararsi dal freddo”, come il “liripipius” cioè un cappuccio da un lungo becco conosciuto con il nome di “cauda”.
Tra i cappucci (mantelline) nacque il “chaperon”, proveniente dalla Francia e conosciuto in Italia con il nome di “capperone” come capo d’abbigliamento. Un’importante testimonianza si trova nel manoscritto sulle tecniche agronomiche e di coltivazione dei giardini “Ruralium Commodorum libri XII”, di Pietro de’ Crescenzi (1233-1320), nel quale vengono espressamente nominati i “capperoni” utilizzati dai contadini.
Era un cappuccio facilmente riconoscibile grazie ad lunga cornetta, o “liripion”, sul fondo del cappuccio che poteva essere rigirata sul volto per garantire maggiore protezione contro le intemperie. La forma del cappuccio, nella sua totalità, ricordava la forma del bocciolo dell’arbusto Capparis spinosa da cui si riconosce il nome “capperone”.
Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, Firenze 1612, descrive il capperone come indumento derivante dalla cappa; un cappuccio in genere povero “di uso contadinesco, o da vetturali, il quale è appiccato a’ lor Saltambarchi, per portarselo in capo sopra ‘l cappello, quando e’ piove. Lat. cuculio.” La stessa Enciclopedia Treccani dell’Arte Medievale definisce in altrettanto modo il capperone come indumento derivato dalla cappa, “un cappuccio per la pioggia, munito di piccolo bavero o mantellino che arrivava sino all’avambraccio”
Dalla Francia, arrivarono in Italia nel 1292, “chapelliers de coton”, sempre in Italia l’arte del berretto divenne maggiormente approfondita, nacquero così nuove corporazioni; a Venezia nel 1281 i “baretari” diffondono per tutti i dominî della Serenissima le “barete a tozzo” di loro produzione (nel dialetto veneziano si intende un berretto di forma piccola, schiacciato, con una mezza piega).
Tra gli uomini, dalla meta del XIII secolo, si perse l’usanza di portare capelli lunghi, più per evoluzione del gusto popolare che per imposizioni religiose; il nuovo stile si mostrava così più pratico ed elegante. Le chiome avevano un taglio che arrivava alla mascella e spesso ci si aggiungeva la frangia; nella sua totalità risultava un’acconciatura curata, nello stesso tempo, anche la barba aveva un’apparenza ordinata.
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