Dalla seconda metà del XIII secolo vi fu un radicale cambiamento non solo nel campo della moda, ma anche nella società. Nel 1264 Pietro Bescapè disegnò e descrisse nel “Sermum Divin” le fogge degli abiti di moda, in una lingua italiana ancora molto incerta e molto dialettale, conservato a Milano nella Biblioteca Braidense.
L’idea di Medioevo buio, immobile, senza stimoli, non rispecchiava quanto descritto rispetto alla realtà storica del tempo, anche Folgore da San Gimignano annotava che il mondo si stava allargando e che le mode cambiavano a causa dei costumi francesi, dei cavalli di Spagna, degli strumenti musicali della Germania e dei balli della Provenza, sintomo di un’Europa che andava verso un progresso comune.
Anche a Milano stavano arrivando nuovi influssi di stile e ci si lamentava dell’invasione degli abiti francesi, dell’uso delle vesti strette e lunghe e dei larghi cappotti (vedi garde-corps maschile e pelicon femminile).
Già nel 1219 a Venezia il “Capitolare de Sartoribus” dava un regolamento ai sarti, da qui altri statuti si attestano tra il 1244 e il 1266, relativi a questo mestiere, a Bologna, a Pavia e a Firenze. Nel giro di pochi anni a Firenze padroni di botteghe, sarti, tessitori, tintori e mercanti si unirono in un’unica associazione riuscendo così ad assumere un notevole peso nella vita e nella moda medioevale.
Nel libro delle Arti e dei Mestieri di Étienne Boileau del 1254 si leggeva di ricamatori di parametri sacri o profani, tagliatori di indumenti diversi, ricamatori di seta o di oro e argento, calzolai di pianelle, zoccoli, scarpe e stivali, pellicciai… di donne specializzate in scarselle alla saracena, altre nei fiori di stoffa, vantando una ricca e dettagliata varietà di abilità artigiane.
Verso la fine del XIII secolo un nuovo telaio orizzontale, con il meccanismo a pedale, sostituì il vecchio telaio manuale in tutta Europa.
Dopo il 1260, nell’abbigliamento femminile, fece la sua comparsa un nuovo indumento esterno, da indossare al posto del mantello: il “pelicon”.
Era confezionato con un’enorme pezzo di stoffa ellittico, spesso arrivava a più di tre metri nella sua parte più larga, tant’è che le donne, per poter camminare comodamente, si portavano sul grembo la stoffa in eccedenza.
Il pelicon aveva tre aperture: una per la testa e due per le braccia. Una volta indossato, il tessuto cadeva liberamente dalle spalle ai piedi e, dietro, formava uno strascico. L’apertura per la testa, poteva essere abbastanza larga per agevolarne la vestibilitá e orlata di pelliccia oppure potevano essere presenti dei bottoni da sotto al petto fino al collo.
Essendo un indumento indossato al posto del mantello, era confezionato con tessuto pesante e quindi di solito era bordato di pelliccia completato da un cappuccio.
Le donne della seconda metà del 1200 continuarono ad indossare come abito principale la lunga tunica a maniche strette che andava ben oltre all’altezza di chi la indossasse in modo da formare un breve strascico nonostante le leggi suntuarie dato che la Chiesa lo considerò simbolo di peccato in quanto paragonato ad un serpente.
Fra’ Salimbene de Adam da Parma (Parma, 9 ottobre 1221 – San Polo d’Enza, 1288), religioso e scrittore italiano, frate minore, seguace di Gioacchino da Fiore e autore della Cronica, attento osservatore dei costumi, annotò tra i suoi scritti che alle donne fu più amaro l’annuncio della proibizione dello strascicò che notizie di morte; quando la Chiesa ordinò perentoriamente alle donne che dovevano tenere sempre il capo coperto durante le funzioni religiose, lo scrittore notò che i tessitori produssero dei veli così belli e leggeri che le donne guadagnarono molto in bellezza attirando ancor più gli sguardi degli uomini.
La tunica era abbastanza aderente, mostrava maniche strette che dal gomito al polso erano ancor più strette da bottoni, i quali venivano fissati tramite un unico filo interno; i bottoni in metallo prezioso facevano parte della gioielleria femminile.
Per molti anni le donne comuni mantennero l’uso della doppia tunica e c’era l’abitudine, durante il lavoro, di arrotolare in vita quella superiore o di inserirla nella cintura lasciando in vista la camicia di tela di lino. Di uso diffuso era il grembiule per proteggere la veste; le artigiane non avevano vesti particolarmente ricche infatti erano molto semplici confezionate in casa a mano con tessuti rustici dai colori naturali, mantenendo il colore naturale del materiale da cui erano ricavate oppure venivano tinte con colori naturali e poco costosi che permettevano di scegliere tra una gamma cromatica che andava dall ‘ocra al marrone con qualche sfumatura arancio.
Diffusa anche la “cyclas” come veste smanicata da indossare sopra alla lunga tunica, un “surcot” chiuso ai lati, fino a poco prima dell’ascella.
Difficilmente si riescono ad avere iconografie delle calze femminili in quanto tutti gli indumenti toccavano a terra, ma scritti storici riportano di calze in lana alte fino al ginocchio.
Il copricapo maggiormente diffuso era il soggòlo, che poteva essere indossato sia singolarmente, sia con un velo appoggiato sopra alla parte superiore; contemporaneamente anche il singolo velo appoggiato alla testa o fissato con un cerchietto o facendolo passare sotto al mento, rimaneva un copricapo parecchio usato dalle donne sposate.
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