Moda maschile nella prima metà del XIV secolo

Nella prima metà del XIV secolo in molte regioni d’Italia gli abiti mostravano ancora alcuni collegamenti con i costumi classici e bizantini, ma in tutto il settentrione, particolarmente in Lombardia, iniziavano a manifestarsi le tendenze tipicamente francesi.

Con l’incremento dell’industria tessile in città toscane come Lucca, Firenze e Prato, le cui produzioni pregiate sono testimoniate in questo secolo, si stavano specializzando nell’Arte tessile e i mercanti diffondevano in tutta Europa una merce di alta qualità molto ricercata. Giovanni Villani (Firenze 1276 -1348), nella sua “Nuova Cronica” datata nel primo decennio del Trecento, scrisse di oltre duecento botteghe di lanaioli nella città fiorentina aggiungendo quelle dei conciatori, tintori, cardatori, straccivendoli, orefici e calzolai e di oltre trentamila lavoratori occupati nel campo tessile.

Dai primi anni del Trecento, gli uomini mostravano interesse per le stoffe rare e preziose come i pesanti panni di lana acquistati in Fiandra, in Inghilterra o nelle fiere della Champagne e lavorati e pettinati a Firenze accuratamente tinti e rifiniti dall’Arte di Calimala (nominata così l’Arte fiorentina del commercio internazionale dei panni di lana stranieri) o come le sete toscane.

Stemma dell'arte di Calimala sulla nicchia della chiesa di Orsanmichele a Firenze

Stemma dell’arte di Calimala sulla nicchia della chiesa di Orsanmichele a Firenze

I tessuti erano rappresentati da colori vivi che, grazie all’arte dei tintori, potevano ottenere una serie di svariate sfumature che davano ampia scelta nella selezione degli indumenti. Nel campo del vestiario infatti vi era una diffusione di colori, tra cui il rosso ricavato dalla robbia, dal verzino e dal kermes che in arabo significa appunto “rosso”, l’azzurro veneziano dal guano soprattutto in Toscana e in Emilia, il verde che come ricordava Villani era il colore preferito dai Malspina, il giallo dallo zafferano e dalla reseda comunque poco amato dalla nobiltà, il marrone dalle galle e dalle cortecce, il blu dalla polvere di lapislazzuli. All’inizio del secolo, nell’araldica sono usati solo i colori primari come il giallo, bianco, blu, rosso, verde, nero (molto difficile da ottenere) e viola (chiaro); in questo ambito, la scelta dei colori non avveniva secondo un criterio estetico, ma si seguiva un’ideologia simbolica secondo il colore, ad esempio il rosso indicava il coraggio, il bianco l’onesta e il blu l’orgoglio, oppure secondo figure di animali come l’ermellino che indicava purezza, il leone come forza, l’orso per l’orgoglio, il lupo per la ferocia e l’aquila per l’audacia. Questi colori e disegni non erano scelti personalmente, ma indicavano l’appartenenza ad un casato infatti spesso si trovavano sul “blaseau”, comunemente conosciuto in Italia con il nome di blasone, il quale riportava anche motti e versetti spesso scritti in latino che generalmente erano consigliati da poeti ed intellettuali ospitati dalle corti, come Mantova, Ferrara o Milano, ad esempio il motto visconteo “a buon diritto” fu suggerito da Petrarca.

Gli abiti raffigurati da Martini sono caratterizzati dal gioco dai tessuti multicolori, dalle cuciture usate come elemento decorativo nelle rifiniture

Gli abiti raffigurati da Martini sono caratterizzati dal gioco dei tessuti multicolori, dalle cuciture usate come elemento decorativo nelle rifiniture

Questo “fenomeno moda” si avvertì anche nel ceto medio che cercava di imitare la linea degli abiti più ricchi; l’abito civile esprimeva i desiderii di affermazione sociale e di accuratezza e gusto di un ceto sociale emergente costituito da artigiani e mercanti arricchitosi grazie al commercio.

Gli uomini davano così grande importanza ai loro abiti, che rappresentavano visivamente le diverse classi sociali. Le lunghe tuniche dalle maniche strette, fermate in vita da una cintura, erano lasciate all’aristocrazia, Villani tra i suoi scritti aggiunse che gli uomini mantennero una sopravveste simile alla toga romana, con poche modifiche, in rappresentanza di onore e privilegio che diventò segno di dignità e autorità tant’è che, di uso civile, fu indossata da Dante (1265 – 1321), Petrarca (1304 – 1374) e Boccaccio (1313 – 1375) insieme al tocco, tipico copricapo fiorentino.

Dante in infulae e berretto

Dante in infulae e berretto

Petrarca in surcot e capperone / Petrarca in camicia, tunica e garde-corps

Petrarca in surcot e capperone / Petrarca in camicia, tunica e garde-corps

Boccaccio in camicia, tunica e mantello

Boccaccio in camicia, tunica e mantello

Fino al 1340 l’abito maschile più comune era costituito da una tunica lunga generalmente fino al ginocchio come si può vedere nelle opere di Giotto (1267 – Firenze 1337) in quelle di Lorenzetti (1290 – Siena 1348) come anche in quelle di Martini (1284 – Avignone 1344) o nelle opere di Daddi (1290 – Firenze 1348). Sopra alla tunica veniva abbinato un “surcot” cioè una sopravveste priva di maniche cucita dall’orlo fino a sotto l’ascella.
Sotto alla tunica, a contatto con la pelle, vi era una camicia che in latino indicava un “sottabito”, una sottoveste, di fibra di lino a maniche strette lunga fino al ginocchio con un breve scollo a V o rotondo, ma abbastanza ampio per il passaggio delle testa, e priva di bottoni.

Giotto

Giotto

Ambrogio Lorenzetti

Ambrogio Lorenzetti

Simone Martini

Simone Martini

Bernardo Daddi

Bernardo Daddi

L’accorciarsi degli abiti maschili al ginocchio impose vere e proprie calze alte e di conseguenza anche le brache si accorciarono, dando vita a delle calza-brache costosissime in quanto dovevano essere confezionate su misura.
Le gambe erano coperte da calze colorate mentre le scarpe erano spesso una sorta di stivaletti informi, di cuoio o di stoffa; tra i ceti più bassi l’accorciarsi delle brache, all’inizio del secolo non era cosa così evidente, allo stesso modo, anche le calze rimasero al polpaccio come si nota ne “Il sogno di Gioacchino” del 1304 di Giotto o nel “Buon Governo” del 1338 di Lorenzetti, rimaneva infatti più ricercata la tunica lunga, con maniche strette da un polsino talvolta più comodo. Gli uomini che lavoravano erano soliti ad indossare un grembiule.

Cappella degli Scrovegni, Giotto

Cappella degli Scrovegni, Giotto

Particolare, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Lorenzetti

Particolare, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Lorenzetti

imagePer proteggersi dal freddo gli uomini si ricoprivano con lunghi mantelli, aperti davanti o di lato, spesso foderati internamente da una pelliccia che poteva provenire da volpi e lupi visto che si trattava di un pelo caldo, resistente al vento e al tempo e impermeabile; il colore giallastro della volpe del Sud Italia rendeva la sua pelliccia povera, mentre considerato con maggior valore il pelo rossastro della volpe centro-settentrionale, le pellicce più diffuse facevano parte della cacciagione locale, mentre le famiglie più ricche facevano uso di pellicce pregiate e costose come lo scoiattolo cangiante, cui alternarsi di dorsi grigi e di ventri bianchi costituiva il “vaio” insieme all’ermellino, la cui bianchezza era marcata dalle macchie nere che formano l’estremità della sua coda, come l’agnello molto giovane dal pelo fine e lo zibellino.

Come copricapi erano molto diffuse mantelline con cappuccio provenienti dai ceti medio-bassi come la “pellegrina” dei viaggiatori o lo “chaperon” francese, nato appunto dalle classi operaie per proteggersi dal freddo; nell’Italia del Trecento il capperone era ampiamente usato anche nei ranghi più alti, come mantellina con cappuccio dalla lunga punta “liripipe”, il quale poteva essere confezionato con un’unica apertura per la testa o con una serie di bottoni frontali che si allacciavano fin sotto il mento per proteggere il collo. Insieme a questo vi erano berretti in lino come il tocco o l'”infulae” o cappelli di pelliccia che avvolgevano i capo o in feltro a punta o di paglia.

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