Moda femminile nella prima metà del XIV secolo

Le donne, nella prima metà del XIV secolo iniziavano a sentire una sorta di liberazione da quell’ideologia culturale che fino ad ora le aveva confinate. Di questa restrizione si ha testimonianza cinquant’anni prima quando per Filippo da Novara la donna non doveva imparare né a leggere né a scrivere, se non per diventare monaca, perché, dall’ideologia comune, da una donna colta, derivavano molti mali.
Le donne sentivano l’esigenza di manifestarsi anche attraverso l’abito indossato, dalla forma, dal colore e dalle nuove stoffe.
Nell’abbigliamento, tra i tessuti, nella prima metà del Trecento, la lana rimaneva il materiale più importante grazie alle sue numerose qualità, come la possibilità di essere tinta e la caratteristica di essere un buon isolante termico.
In Italia, l’importazione dei prodotti tessili, come il cotone grezzo dall’Egitto, stava diventando un importante ramo dell’economia, il tessuto veniva lavorato direttamente nelle botteghe italiane, la stampa fu un attento particolare proprio di questo secolo ed era abbastanza comune; il ricamo della lana e della seta in filo d’oro, per i nobili, veniva usato abitualmente come decorazione per abiti e mantelli. Quando nel Duecento le leggi suntuarie proibivano decorazioni, gioielli, strascichi e pellicce, nel Trecento le decorazioni si diffusero molto velocemente.
In Inghilterra Edoardo III fece costruire un laboratorio di ricamo nella torre di Londra, dove furono realizzati gli abiti in velluto rosso con i quali, lui e sua moglie, la regina, vennero raffigurati in un dipinto della metà del secolo. Gli abiti erano ricamati con nuvole d’argento ed aquile di perle o di oro alternativamente sotto ogni nuvola.

Isabella Plantageneto figlia di Edoardo III, in surcot Isabella Plantageneto figlia di Edoardo III, in guarnacca

L’arte della sartoria si diffuse in tutta Italia dove nacquero veri e propri laboratori di sarti e tessitori specializzati, i loro tessuti erano molto ricercati dalla nobiltà; con l’aumento del commercio in campo tessile in città italiane come Lucca, Firenze e Prato, le cui produzioni pregiate sono testimoniate in questo secolo, si stavano creando appunto centri e mercati i cui prodotti si diffondevano in tutta Europa come una merce di alta qualità e ricercata. Giovanni Villani (Firenze 1276 -1348), nella sua “Nuova Cronica” datata nei primi del Trecento, scrisse di oltre duecento botteghe di lanaioli nella città fiorentina aggiungendo quelle dei conciatori, tintori, cardatori, straccivendoli, orefici e calzolai e di oltre trentamila lavoratori occupati nel campo tessile.
La lana era utilizzata nella realizzazione degli “strati” più esterni come mantelli o pelicon (“cappotti” femminili) o per le calze che solitamente erano cucite “a tubo” (senza la forma del piede) la cui lunghezza arrivava al ginocchio fermate da un semplice nastro.

Lionora Gherardini

Il lino, invece, era utilizzato per i capi a diretto contatto con la pelle, per la maggiore delicatezza del tessuto, ad esempio la camicia, confezionata infatti di tela di lino, era l’indumento intimo per eccellenza. Tra le camicie intime a maniche lunghe e strette, si stava diffondendo, nelle classi nobiliari, un’innovativa camicia senza maniche usata principalmente dopo la metà del secolo. La camicia rimaneva senza bottoni o lacci, ma abbastanza larga per agevolarne la vestibilitá. Il lino era un materiale anche molto resistente ai lavaggi, visto che le donne erano obbligate ad indossare la camicia giorno e notte stando alle leggi del pudore. Si ricorda che a Firenze le donne si recavano lungo gli argini dell’Arno a lavare e a stendere i propri tessuti. Quest’immagine prese un significato letterario nei secoli successivi con Alessandro Manzoni per il quale si trattava di una metafora, in cui l’acqua del fiume Arno rappresenta la lingua italiana per eccellenza, ovvero il fiorentino. Il significato letterale di “sciacquare i panni in Arno” era pertanto quello di conferire ad un testo le caratteristiche della lingua fiorentina.

L’indumento intimo femminile prevalente rimaneva la camicia; ci sono anche testimonianze riguardo ad una fascia per il seno che non riguardava in particolar modo al contenimento di esso, ma più che altro alla protezione.

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Nel ciclo di affreschi “Allegoria del Buono e del Cattivo Governo e loro Effetti in Città e in Campagna” di Ambrogio Lorenzetti, datati tra il 1338/39, le donne nei campi erano rappresentate in camicia.

Donna in camicia Donna in camicia

La seta era il tessuto più raffinato conosciuto all’epoca, impreziosita da ogni tipo di ricamo; le nobili potevano anche permettersi i costosi tessuti in damasco o in broccato la cui nascita è datata proprio nella prima metà del XIV secolo quando si cominciò ad impreziosire i tessuti in damasco con fili d’oro e d’argento con effetti in rilievo. Tessuti preziosi come seta, damasco e broccato erano un’esclusiva dei ricchi, del clero e dei regnanti; importanti centri di produzione, in Italia furono anche Venezia, Genova e Milano oltre a quelli sopra elencati. I tessuti italiani di moda in quel periodo, avevano come soggetto la ripetizione di motivi di cerchi ed animali, ispirati alle sete dell’impero Ottomano o a quelli della dinastia Yuan. In Francia era di moda, anche per le donne, vestire con i simboli e con i colori del casato, infatti si trovavano donne eleganti in abiti ricamati e decorati con i loro blasoni; in Italia questo tipo di abbigliamento fu vietato, per il primo Trecento, dalle leggi suntuarie, ma la produzione dei tessuti dava un’ampia scelta di colori.

Tessuto damascato italiano Tessuto damascato italiano

I colori delle vesti erano sgargianti e contrastanti nei ranghi alti, mentre erano intonati, scuri o sbiaditi nei ranghi bassi. Il colore nero, nel XIV secolo, non era particolarmente usato in quanto veniva associato all’idea di morte e di lutto, di tristezza e di dolore, pur dovendo essere usato per gli abiti da indossare nelle cerimonie funebri, spesso non era volutamente utilizzato.
In genere gli abiti femminili nobili erano di colore blu, verde smeraldo, porpora, viola o rosso in contrasto con bianco, fucsia, arancione e turchese; come per i colori, anche la forma degli abiti stava iniziando a risentire di quei cambiamenti provenienti dalla moda francese, ugualmente l’immagine femminile appariva più delicata e armoniosa, anche grazie alla lunghezza della veste alzata elegantemente alla vita.

Donne in surcot colorato e decorato Donne in guarnacca colorata e decorata. Particolare, miniatura 1335-40, The British Museum, Londra

Sopra alla camicia, le donne indossavano una tunica, che poteva essere tanto larga quanto aderente al corpo, diffusa come “cotta”; aveva maniche lunghe e strette che spesso e l’ampia gonna (comunque abito intero) di solito si presentava lunga sino ai piedi e l’ampiezza era data da gheroni: inserti triangolari dello stesso tessuto.

Lo strascico che era presente anche nella “sovra-tunica”, “sopra-cotta”, conosciuta con il nome di “guarnacca” fu il particolare delle vesti femminili più ostacolato dalle leggi del lusso; nel 1308 Federico II d’Aragona, re di Sicilia, decretò che lo strascico non dovesse superare i quattro palmi di lunghezza; nel 1322 a Firenze, la coda poteva essere di due braccia, a Modena e a Lucca si andava dal braccio al braccio e mezzo di lunghezza, a Venezia furono imposte limitazioni allo strascico solo nel 1334 tuttavia rimase un particolare del vestiario molto apprezzato dalle donne in tutto il periodo tant’è che, per non rinunciarvi, rialzavano la parte inferiore della veste verso la vita, fermandola con il gomito o con la mano.

Immagine tratta da Immagine tratta da “A History of Fashion” di J. Anderson Black, Madge Garland, Frances Kennett, Orbis 1980

Il “surcot” (comunemente chiamato) o guarnacca era in genere chiuso ai lati, creando un’ampia apertura sotto l’ascella; tra i ceti più bassi si trovava più corto della veste. Queste aperture ascellari erano, per la Chiesa, una fonte di peccato in quanto i religiosi vedono l’espressione di un desiderio femminile di libertà e provocavano pensieri viziosi nella mente maschile; deplorarono i nuovi tagli definendoli “le finestre dell’inferno” o “le finestre del diavolo”.

imageCome mostrano alcune iconografie del tempo, la guarnacca si poteva indossare o meno, ovviamente in base alle possibilità economiche, in base alla ricorrenza e al ceto sociale o fuori dalle mura domestiche e poteva presentarsi con decorazioni e orli ricamati al collo e nell’apertura per il braccio, come si nota ne “L’Annunciazione” di Giotto del 1304 oppure semplice e lineare come si nota ne “Le nozze di Maria e Giuseppe” sempre Giotto del 1304.

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All’aperto le donne utilizzavano anche mantelli, spesso orlati in pelliccia di ermellino, coniglio, scoiattolo, montone e marmora, di moda tra le sopravvesti un lungo “cappotto” con due fessure per le braccia e una per il collo conosciuto con il nome di “pelicon”, tipico della fine del 1200, anch’esso generalmente orlato in pelliccia.

image Pelicon, Cattedrale di Nostra Signora di Strasburgo, Francia

Le donne sposate nell’Europa del nord e dell’est, indossavano diversi tipi di copricapi come il “soggolo” già in uso nei decenni precedenti, si trattava di una fascia di fibra di lino o seta che passava sotto la gola e veniva fissata sulla testa circondata da una rigida fascia. In Francia era di moda che il “barbet”, simile al soggolo che, come questo, poteva essere indossato con o senza il “couvrechef” cioè il velo sopra; per le donne nubili era sufficiente intrecciare i capelli, senza coprirli.

Miniature francesi 1315-25. Donne in surcot e velo

In Italia, con l’avvicinarsi della metà del secolo, era accettabile che una giovane donna mostrasse i capelli infatti molte donne acconciavano i propri capelli con nastri o si intrecciavano i capelli facendo passare le trecce intorno alla testa, la maggior parte delle volte senza copricapi o veli. Il soggolo o il velo invece era indossato dalle donne più anziane e dalle vedove, mentre per le lavoratrici, bastava un semplice fazzoletto. Il soggolo con un velo che copriva collo e spalle era in uso tra le donne religiose.

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